Interviste

Dialogo con Paolo Leonardo

di Alessandro Demma

Sin dai tuoi esordi nel 1994 hai analizzato l’essenza e l’esistenza dell’immagine, la
presenza consacrata del già visibile, l’infinita riproducibilità della visione e della
rappresentazione, riuscendo a scardinare e ricodificare un mondo, un sistema, quello della
società dell’immagine diffusa, attraverso l’intervento pittorico, l’interferenza fisico-mentale
della tua azione. Da dove nasce questa tua necessità di intervenire nell’immenso archivio
della “riproducibilità tecnica”?


La mia prima esperienza artistica di rilievo è stata un intervento urbano del 1994. Non
sopportavo che l’orizzonte urbano della mia città fosse invaso da immagini pubblicitarie, da
questi volti e corpi che rappresentavano l’uomo, ma allo stesso tempo lo banalizzavano
stereotipandolo e riducendolo a merce. Una notte ho strappato due grandi manifesti un
volto di uomo e uno di donna e dopo averli modificati con un intervento pittorico, di stile
espressionista, li ho ricollocati abusivamente negli espositori stradali pubblicitari.
Dal 1994 al 2016 ho fatto numerosi interventi urbani a Torino, Milano, Nizza, Bruxelles,
Parigi. L’intento dei miei interventi pittorici era quello di rimettere al centro la
rappresentazione dell’uomo e del corpo attingendo all’immenso archivio delle immagini
pubblicitarie che in qualche modo avevano e hanno la forza di rappresentare l’uomo nella
società contemporanea con i suoi stereotipi, le sue miserie, con i suoi vuoti. Cerco di
rappresentare dei tentativi di fuga dell’uomo dalla propria identità estetica e sociale
consegnando le figure all’eternità di un tempo monocromo dove ogni metamorfosi è
possibile.
Il procedimento del mio lavoro è suggerito da Roland Barthes ne la camera chiara, dove si
ricerca nell’osservazione delle fotografie un rapporto empatico, uno studio emotivo; in esse
vedo un potenziale di senso e in alcune anche una sorta di potere magico, ed è attraverso
l’intervento pittorico che instauro un dialogo con queste immagini.
Sono stato molto attratto dall’iconografia femminile, tema fondamentale nella storia del
arte. Dal 2002 mi sono concentrato sulle immagini pubblicitarie di moda. Riappropriandomi
di questi “corpi”, li riporto sul territorio della pittura, per riflettere sulla rappresentazione
della donna e dell’uomo nell’immaginario pubblicitario, cercando di riattualizzare una
pittura dove l’umano è essenza e motivo di indagine.

Catturando le figure dall’immenso museo dell’immagine globale (la fotografia, il cinema, le
riviste, i libri, etc) e intervenendo con il colore, costruisci foucaultianamente il tuo archivio
personale come un luogo mai concluso di un “processo” alle immagini, come spazio,
teorico e fisico, in cui i documenti possono acquistare nuovo significato, nuova voce e
nuova attualità, in cui possono diventare, finalmente, monumenti. Come avviene questo
processo?

Appropriandomi dell’immenso archivio d’immagini fotografiche della contemporaneità in
qualche modo attraverso l’intervento le porto su un mio territorio quello della pittura, della
visionarietà, in un certo senso le salvo dall’oblio, consegnandole alla durata.
Per esempio quando vado in giro nei mercati d’antiquariato per terra trovo uno
straordinario archivio di immagini di fotografi anonimi, guardo tutte queste foto ma solo
alcune mi colpiscono. Secondo me si inizia a reinterpretare un’immagine dal momento in
cui si entra in empatia con essa, isolandola, ed è attraverso il filtro della pittura che le foto
vengono definitivamente investite dalle mie emozioni. In ogni mio lavoro c’è una messa in
crisi dell’immagine fotografica, ci sono delle linee di fuga che la allontanano dalla realtà
oggettiva dell’immagine.
Per esempio i lavori in rosso e in nero nascono da un gioco che facevo da bambino,
quando usavo la carta delle caramelle Rossana, una pellicola trasparente di plastica
rossa, che mettevo davanti agli occhi per vedervi attraverso. Guardando attraverso questa
pellicola, infatti, si trasfigurava la visione del mondo, era come essere in un sogno. Nel
2005 insieme al regista Daniele Gaglianone abbiamo realizzato un cortometraggio di
trenta minuti ispirato ai miei lavori pittorici in rosso e nero. Abbiamo girato scene di una
metropoli dipingendo di rosso la visione, utilizzando le musiche di Massimo Miride. Il
risultato è stato un viaggio visionario, onirico, un allontanamento dalla realtà oggettiva.

I tuoi lavori nascono da riflessioni sulla storia, la filosofia, la letteratura, il cinema. Quali
sono gli autori che hanno segnato in modo significativo il tuo pensiero e il tuo agire
nell’arte?


Gli autori che più hanno influito sul mio lavoro sono tanti, ma quelli che ho più approfondito
sono: Guy Debord, Michel Foucault, Gilles Deleuze, Albert Camus, Louis-Ferdinand
Céline, George Bataille e Carl Gustav Jung.


Nell’opera Adolfo hai lavorato sulla figura di Hitler. Perché questa scelta?

Ho lavorato su un’icona che rappresenta il male assoluto semplicemente per parlare
dell’uomo e della nostra attuale condizione sociale, culturale, politica ed economica.
Ho focalizzato l’attenzione sul concetto di dismisura di Camus citando una sua frase, per
dire che la nostra democrazia è un sistema imperfetto e la crisi economica che ci sta
attraversando può far riemergere (come già sta succedendo in diversi episodi di cronaca),
negli strati più poveri della società, un odio verso le minoranze (capro espiatorio di tutti i
mali). In Italia, infatti, è visibile una forte ripresa di movimenti neofascisti, nazionalisti,
secessionisti, negazionisti, che lavorano dal basso per seminare odio sociale. Adolfo è,
quindi, una riflessione sul passato che sempre più si fa presente.

La letteratura, la narrazione, la poesia da sempre hanno giocato un ruolo fondamentale
nel tuo lavoro, fino all’incontro felice con la poesia Vertigine di Arthur Rimbaud, da cui è
nato un lavoro, presentato alla Fondazione Merz, che segna in maniera forte il tuo
approccio politico-culturale nell’arte. Perché questa poesia è stata così importante nel tuo
percorso?

L’opera Vertigine, presentata alla Fondazione Merz su sette pannelli, nasce da una
riflessione sulla poesia di Arthur Rimbaud scritta subito dopo la sanguinosa repressione
della Comune di Parigi nel 1871, questa poesia con la sua famosa frase “noi non
lavoreremo mai” è diventata espressione di una volontà rivoluzionaria ed è stata utilizzata
nel tempo: dai situazionisti alla fine degli anni’50, nel Maggio Francese del’68 ed infine dai
movimenti punk Torinesi degli anni’80. La serie dei pannelli pone al centro la figura umana
in crisi e ripiegata su se stessa e in relazione ad essa il paesaggio, muto osservatore.


“Parigi, Maggio, 1968 / Torino, Maggio, 1973, via Bligny” è il titolo del tuo più recente
progetto che, attraversa anni intensi, anni di rivolta, di ribellione politica, sociale e culturale
al sistema, al capitalismo, all’imperialismo, anni vissuti alle soglie della nascente società
postmoderna. Entrare in quel periodo storico, quello delle “grandi narrazioni” direbbe
Jean-Francois Lyotard, cosa significa oggi, nell’epoca della fine dei “grandi racconti”,
nell’era della società globale e neocapitalistica?


Ho utilizzato per questa serie di opere delle fotografie degli scontri avvenuti a Parigi nel
Maggio 1968.L’opera completa è composta da 18 immagini 70×100 cm. cad.
Attraverso il mio intervento pittorico ho voluto rendere omaggio al Maggio Francese che
ebbe una forte tendenza libertaria rispetto al 1968 Italiano di matrice prevalentemente
comunista.” In Francia è avvenuto qualcosa di molto importante. L’aspetto più significativo,
fu la nascente alleanza studenti-operai, che avrebbe potuto davvero avere importanti
ripercussioni. Ecco il caso di una scintilla che non ha provocato una deflagrazione “Noam
Chomsky, Sistemi di potere, Ponte delle Grazie, p 66.
L’opera s’intitola: Parigi, Maggio,1968 / Torino, Maggio,1973,via Bligny. Io sono nato il 30
luglio 1973 appunto a Torino in via Bligny e a maggio ero nel grembo materno. Mi
interessa questo parallelismo tra tempo storico-politico e tempo privato, intimo. Io esistevo
nel grembo materno ma ero nel tempo storico ignaro di quello che succedeva all’esterno
appunto a Torino dove il 29 Marzo ci fu l’occupazione della FIAT e il 10 Dicembre 1973 le
Brigate Rosse sequestrarono il cavaliere Ettore Amerio, capo del personale FIAT.
Il titolo alle immagini di “Parigi,Maggio,1968/Torino,Maggio,1973, via Bligny” ha un potere
evocativo dell’atmosfera di quel decennio e hanno una valenza simbolica-metafisica.

Le lezioni della storia, della politica, della letteratura, della filosofia, dell’arte, della musica
e della cultura in genere, hanno lasciato, nel tuo viaggio tra i sentieri dell’arte, delle tracce
fondamentali, delle “cicatrici di memoria” che hai sempre cercato di raccontare con uno
sguardo attuale. Quali sono, allora, le prospettive del tuo lavoro futuro in questo nostro
mondo che, citando De Andrè, “è diviso in vincitori e vinti, dove i primi sono tre e i secondi
tre miliardi”?

Le prospettive del mio lavoro futuro continueranno a seguire due istanze legate, quella
etica e quella estetica. In questo periodo sto leggendo “Il disagio della civiltà” di Freud, il
libro è stato scritto nel 1929 in anni non molto diversi da quelli che stiamo vivendo, in
questo periodo di grave crisi economica internazionale, e questo rende le sue riflessioni
sulla società umana estremamente attuali.
Forse una riflessione approfondita tra i due istinti che dominano l’esistenza dell’uomo e
che inevitabilmente tendono a contrapporsi, cioè Eros e Thanatos potrebbero aiutarci a
capire questo momento storico. Ma per tornare alla tua domanda, si diceva bene De
Andrè, siamo di fronte a scenari inquietanti, Web e robot, dopo la globalizzazione e la
finanza stanno uccidendo la classe media e non solo. Siamo nella quarta rivoluzione
industriale, trovare un modo di fare arrivare più soldi nelle tasche dei lavoratori sotto
assedio dalla meccanizzazione più che una forma di generosità individuale è una
necessità economica collettiva.
Senza soldi in tasca la gente non può acquistare nulla. Io penso che sia necessario
ripensare ad una redistribuzione della ricchezza in un certo senso una forma di “esproprio”
indirizzato a tutte le grandi multinazionali per fare un esempio:Facebook, Google, Amazon
e Apple che sono fra le prime in elusione fiscale, ma la lista di chi detiene gran parte della
ricchezza nel mondo è più lunga.
Ma queste sono riflessioni che lasciano il tempo che trovano.
Per adesso so di essere un pessimista e amo molto Fabrizio De Andrè.